Il cous cous a Ferrara, il riso del sushi in Piemonte. Quando il cibo etnico si produce in Italia

Sabato 12 Luglio 2014 di Alessandra Ianniello
Il cous cous a Ferrara, il riso del sushi in Piemonte. Quando il cibo etnico si produce in Italia
​Quando si parla di cous cous la mente corre subito all’Africa, alle dune del Sahara, alle donne che pazientemente impastano la semola con gesti antichi. Ebbene, se questo il folklore, la realt dei fatti un’altra. Dimentichiamoci l’Africa e guardiamo più vicino a noi, precisamente ad Argenta (in provincia di Ferrara). Qui ci sono gli stabilimenti di Bia, il primo produttore al mondo di cous cous. La sua è una storia di riconversione di successo, da un pastificio tradizionale con qualche problema, è diventato un leader di mercato che esporta i suoi prodotti anche in Nord Africa.



«Come viaggiano le persone – spiega Chef Kumalé, giornalista gastronomade – così viaggiano gli ingredienti. Con l’uso quotidiano diventano poi patrimonio delle terre d’immigrazione. Pensiamo solo che cosa sarebbe la cucina italiana se avessero vietato a Colombo di portare dall'America patate, pomodori e mais». E che dire del riso per il sushi coltivato in provincia di Alessandria? Infatti la Riseria Monferrato esporta in gran parte dell’Europa il suo riso varietà Shinode che cresce florido grazie all’aria che arriva dal Monte Rosa e dal suolo fertile della Pianura Padana.



Più a sud, in Puglia, invece, Andrea Suriano, giovane imprenditore agricolo di Foggia, ha cominciato a coltivare prodotti etnici destinati prevalentemente agli stranieri, dallo zenzero alla cannella dalla curcuma al coriandolo. Chi invece si è specializzato nella produzione del peperoncino è un coltivatore di Torre del Lago (in provincia di Lucca). Grazie alla sua collezione di oltre 800 tipi di peperoncini provenienti da tutto il mondo (dal Demetra del Sud America all’Habanero Red del New Mexico fino al Cayenna del Marocco e il Dark Green del Vietnam), Marco Caramazzi collabora con l’Accademia del Peperoncino per organizzare il “Peperoncino Day” che si tiene a Viareggio (quest’anno dal 22 al 24 agosto). «Soddisfare le richieste degli stranieri in Italia – continua lo chef – può essere la chiave di volta per superare la crisi. Basti dire che, mediamente, un chilo delle verdure italiane costa 1 euro mentre il prezzo di quelle straniere arriva anche a 4». Nonostante il prezzo (che rimane comunque concorrenziale rispetto alle verdure d’importazione) le massaie indiane, bengalesi e marocchine sono soddisfatte di mettere in pentola verdure "di casa" fresche.



Esempio il cavolo cinese (bianco e dalla forma allungata) e il cavolo pachoi (una varietà scura, simile alle coste) che Giorgio Scotti coltiva a Mediglia, a pochi chilometri dal capoluogo lombardo. Mentre a Carmagnola (in provincia di Torino) un gruppo di contadini cinesi si sono consorziati per coltivare il cavolo pakcioi, la tiánguā (particolare zucchina tonda) e la jiǔcài (simile all’erba cipollina) molto utilizzata nelle preparazioni a base di maiale. Ma la cucina etnica è anche espressione degli usi religiosi.



Così Paolo Cervelli, allevatore di pecore, nel suo stabilimento a Caselle Lurani (in provincia di Lodi), macella solo secondo rito islamico e per farlo ha assunto Hasan, un ragazzo egiziano. A lui spetta il compito più delicato: l'uccisione dell'animale. Come prevede il rito, Hasan rivolge la pecora in direzione della Mecca poi, con una lama affilata, le recide la gola con un solo movimento della mano. Sempre legato alla tradizione araba c’è il laban, latte fermentato dal caratteristico sapore acido, che alcune imprese lattiero-casearie italiane (fra cui Granarolo, Tre Valli e Abit, cooperativa di Torino) hanno iniziato a produrre in Italia. La versione made in Italy di questo alimento, che viene servito come bevanda dissetante e usato come ingrediente per realizzare le salse tipiche della cucina maghrebina e mediorientale che accompagnano il cous cous e la carne arrosto, vanta una qualità molto alta conferitagli dalla freschezza del latte appena munto. Viene poi confezionato in packaging con le etichette in arabo e dotato di certificazione halal, che attesta la conformità dei prodotti alimentari alle regole dell'Islam. «Lo scambio culturale – prosegue Kumalé – si sta verificando nei due sensi. Nasce così il kebab condito con la salsa d’acciughe o il sushi con battuta di carne Fassona».
Ultimo aggiornamento: 15 Luglio, 13:34

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