Inginocchiata, il viso nascosto con il braccio per non mostrare le lacrime, il corpo rannicchiato a farsi tutt'uno con quello, senza vita, della nipotina. Inas Abu Maamar ha 36 anni, ma l'immagine di quell'abbraccio, pur definito nel tempo e nello spazio – la bimba è morta con quattro familiari quando un missile israeliano ha colpito la loro casa - ha la forza di un monumento senza tempo e senza confini. Contro la guerra, il silenzio dell'anima, l'indifferenza.
Una donna palestinese stringe il corpo di sua nipote di Mohammed Salem è la World Press Photo of the Year.
E la narrazione prosegue, tra timori, speranze, resistenza, a farsi sempre sentimento: profondo, pervasivo, solido. È così nel tatuaggio “Be brave” di una ragazza negli scatti di Zied Ben Romdhane sui giovani tunisini e le loro speranze disattese. E nel salto all'indietro, fermato nell'istante in cui un adolescente sembra vincere la gravità, che non pare più solo gioco o talento, ma domanda e protesta. Ancora, nelle ombre fatte sul muro con le mani da una mamma, malata di cancro, con i figli, come testamento, anche di leggerezza e fantasia, documentate da Wang Naigong.
O nella ricerca della farfalla Satyrus, in memoria di un padre, e nella battaglia per la specie Monarca, simbolo dell'anima dei defunti. A susseguirsi sono cieli “vuoti” di pioggia, dove la siccità fa deserto del panorama, altri rossi di fiamme. E scene di lotta, sopravvivenza, impegno. «Eddie Jim – commenta la curatrice Marika Cukrowski – ha immortalato un uomo, nell'isola di Kioa, in mare con il nipote, dove, quando l'anziano era bimbo, c'era la costa. È uno scatto bellissimo ma racconta la crisi climatica». Il mondo che cambia. Davanti ai nostri occhi.