Il coraggio che serve/ Il momento delle rinunce necessarie

Sabato 24 Ottobre 2020 di Paolo Balduzzi

Nella vita pubblica, che è governata dalla politica, così come in quella privata, c’è una differenza spesso labile ma cruciale tra l’ottimismo e l’illusione.

Del primo bisogna vivere ogni giorno, anche e soprattutto in questi tempi difficili, per continuare a credere nel futuro e a programmare la nostra vita; della seconda, al contrario, si può morire. Ed è quello che, piano piano, sta accadendo al nostro Paese. Nel giro di poche settimane sono cambiate molte cose.

Siamo infatti passati dall’impressione che il virus fosse scomparso alla consapevolezza che la carica virale nei casi positivi sia più forte che mai; dalle file fuori dalle discoteche a quelle fuori dai pronto soccorso; dall’esclusione categorica di un nuovo lockdown alle previsioni sul quando verrà imposto. Viviamo ancora da ottimisti, sperando che il Natale sarà festeggiato come sempre, che i nostri alberghi si riempiranno nelle settimane bianche, che i nostri negozi resteranno aperti e che i nostri figli termineranno l’anno scolastico in aula. 
Ma non ci rendiamo conto che senza delle vere rinunce, pubbliche e private, tutto questo rischia di essere solo un’illusione. Un nuovo lockdown nazionale darebbe il colpo finale alla nostra economia, che già nelle stime più ottimistiche rischia di perdere quasi il 10% di reddito nel corso del 2020. 

Lo ammette del resto anche lo stesso Governo nella Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza (Nadef): il peggioramento della situazione sanitaria ed economica potrebbe aggravare la perdita di prodotto per quest’anno (-10,6%) e limitare il rimbalzo nel 2021 al 2,3% contro il 6% dello scenario positivo. 

Sono numeri terribili, inutile girarci intorno. Numeri che si traducono in perdite di posti di lavoro, chiusure di attività commerciali, aumento delle disuguaglianze, diffusione di povertà. In un contesto del genere, come è possibile che il governo non abbia il coraggio di operare una chiusura mirata e preventiva di alcuni tra i settori economici più a rischio di diffondere il contagio? E come è possibile che noi cittadini non abbiamo la consapevolezza che il nostro domani dipende da quello a cui sapremo rinunciare autonomamente oggi? Certo, non bisogna improvvisare e serve procedere in maniera ragionata e decisa. Per quanto riguarda noi singoli cittadini, la ricetta è all’apparenza molto semplice: se non siamo costretti ad uscire, stiamo a casa di nostra iniziativa. 

Dal punto di vista politico, le cose sono più complicate. Il campo è parzialmente inesplorato: ma abbiamo comunque l’esperienza di sei mesi fa a guidarci. Le scelte politiche, che dovrebbero essere logiche e coerenti, non sempre lo sono: che senso ha chiudere un bar o un ristorante alle 23, per esempio? È una misura che ha la poco invidiabile caratteristica di essere sbagliata sotto ogni punto di vista. Da un lato, incentiva assembramenti negli orari precedenti a quelli previsti per la chiusura; dall’altro, se anche dovesse funzionare a limitare i movimenti, colpirebbe la redditività di queste aziende senza prevedere alcun tipo di compensazione. Perché allora non chiudere totalmente bar e ristoranti, per rimanere nell’esempio, prevedendo adeguate misure di sostegno per chi dovrà rinunciare al proprio lavoro? Del resto, i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato non sono stati finora licenziati grazie a una (giusta) protezione legislativa; non solo: aziende e lavoratori hanno potuto contare sulla cassa integrazione, oggi anche potenziata grazie ai fondi europei. Il governo deve trovare, e se non sa come lo suggerirò a breve, le risorse per attivare un sistema di protezione del reddito e dell’occupazione di quanti sarebbero coinvolti da questi necessari lockdown selettivi.

Si tratta dell’unico modo ragionevole per tutelare la salute della popolazione e, in ultima analisi, per provare a evitare una chiusura più ampia e generalizzata. Discorso analogo vale per la scuola, in particolare per l’università: risulta davvero difficile infatti giustificare come, a fronte della chiusura in alcune regioni di scuole di ordine inferiore, l’università sia libera di decidere autonomamente e in maniera volontaria come organizzare le proprie lezioni. Il mondo universitario è ormai attrezzato per fare didattica a distanza, è inutile (anzi, è pericoloso) far spostare centinaia di migliaia di studenti per lezioni che possono essere benissimo seguite anche da remoto. 

Certo, e lo scrivo da docente universitario, non è la stessa cosa. Ma non bisogna perdere di vista la finalità più grande: evitare un nuovo lockdown. E aggiungo che è meglio chiudere un’aula universitaria che una scuola primaria o una scuola materna, dove molto più difficile sarebbe fornire istruzione a dei bambini sempre più soli e disorientati, senza contare il danno economico per le famiglie che quei figli dovranno poi seguire. Dove trovare il coraggio necessario io non so suggerirlo al governo. Ma dove trovare le risorse, al contrario, sì. Innanzitutto, bisognerebbe vincere la resistenza a opporsi al Mes: in questo periodo il debito dovrebbe essere l’ultimo dei nostri problemi. E, debito per debito, meglio collocare i titoli a prezzi inferiori. In secondo luogo, è stupefacente la decisione del governo di rinunciare alla revisione della spesa per i prossimi due anni, quando invece è proprio questo il momento in cui più ce ne sarebbe bisogno. Senza debito aggiuntivo e senza aumentare la pressione fiscale, l’unica alternativa è tagliare gli sprechi. E ben sappiamo che gli spazi sarebbero enormi. Peraltro, è dal 2014 che giace, colpevolmente dimenticata in qualche cassetto di Palazzo Chigi, la proposta della Commissione Cottarelli, che conteneva proposte per ottenere a regime risparmi fino a 30 miliardi l’anno. Ne basterebbero molti meno per gestire adeguatamente una chiusura selettiva.

Se in quello stesso cassetto di Palazzo Chigi si trovasse anche il coraggio che serve, guarderemmo alle prossime settimane con meno illusione e con più ottimismo.

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